Un giorno, attratto dai movimenti di una sorta di mercato “etnico” nell’estrema periferia nord di Milano, decisi di partire per l’Ucraina utilizzando il mezzo preferito da chi rientrava in patria: il pulmino privato. Alle sette della mattina stabilita, uno sparuto gruppo di sconosciuti si ritrovò davanti al furgone: due autisti, me e altre quattro persone fra i quaranta e i cinquantacinque anni. Ci presentammo, ma ben presto i miei compagni di viaggio cominciarono a discorrere fra loro in ucraino. Erano visibilmente contenti, rilassati e ogni tanto scoppiavano in una sincronizzata risata collettiva.
Il furgone avanzava, saturo di incomprensibili discorsi espressi nella dura lingua slava. Le pause erano scandite solo dalle necessità fisiologiche. Il clima però cambiò una volta varcato il confine con l’Austria. Nel primo pomeriggio, tutti tirarono fuori dalle proprie borse dei grossi pacchetti avvolti da fogli di alluminio entro i quali tenevano il pranzo. Io non avevo nulla da mangiare: pensavo infatti che ci saremmo semplicemente fermati al momento opportuno in un’area di sosta. Senza domandarmi alcunché, con un gesto naturale e spontaneo, ciascuno di loro mi offrì qualcosa e si iniziò a discorrere in italiano. Cominciai quindi a conoscere i miei compagni di viaggio: tre badanti, che lavoravano nei dintorni di Milano, e Nazar, un robusto uomo originario di L’viv (Leopoli) che in Italia faceva già da qualche anno il muratore. Le tre donne erano più aperte e ben presto mi raccontarono dettagli della propria storia personale, mentre Nazar rimase per tutto il viaggio più schivo. Scoprii che Maria aveva un’istruzione superiore mentre Ludmila, soprannominata Luda, e Halyna erano laureate.
“Com’è l’Ucraina?” domandai loro.
Gli occhi di Luda si fecero grandi e luminosi d’orgoglio. “L’Ucraina è un grande Paese” mi rispose. “È molto variegata al suo interno: ci sono le vaste pianure che ne costituiscono il cuore; ci sono le grandi città, dove pochi si arricchiscono e dove si fa cultura, che possiamo considerare come la mente della nazione; poi ci sono le catene montuose dove si conserva intatto lo spirito tradizionale; infine c’è il mare con il suo gioiello più splendente: la penisola di Crimea. A est c’è anche la regione più ricca di materie prime…” E qui Luda venne bruscamente interrotta da Nazar che con tono sprezzante esclamò: “Russi! Lì ci sono russi, non ucraini”.
Halyna, che era di Odessa, prese la parola: “Devi vedere la mia città, è splendida! Sai che una delle vie principali si chiama Deribasivska in onore di un italiano di fine Settecento, Giuseppe de Ribas, primo governatore della città? Lo sai che a Odessa per molto tempo ci fu una numerosa comunità italiana?”. Alquanto stupito provai a chiedere che cosa ci facesse un italiano a governare una città ucraina.
Non ottenni risposta, ma questa gustosa curiosità mi portò a riflettere su come gli scambi, i contatti, le relazioni tra italiani e ucraini non fossero una novità degli ultimi anni. In effetti più volte nella storia i due popoli, o loro singoli esponenti, si erano in qualche modo intercettati e mescolati. È noto, per esempio, che fu in Crimea che Cavour gettò le basi perché il progetto dell’unificazione italiana venisse accolto dalle maggiori cancellerie europee. A Kiev alcuni tra i più importanti edifici furono realizzati da Bartolomeo Rastrelli e nella stessa Odessa operò Francesco Boffo, un altro architetto italiano che tra l’altro realizzò quella monumentale scalinata immortalata nella celebre pellicola La corazzata Potëmkin. Nel XVIII secolo manodopera italiana era utilizzata sia nei cantieri navali, sia, in misura minore, in agricoltura; mentre già nel XV secolo sulla costa ucraina erano presenti gli scali dei maggiori commercianti europei di allora, ovvero i genovesi e i veneziani. Ma la nutrita presenza di italiani a Odessa, a cui faceva cenno Halyna, mi portava a considerare che la necessità di migrare e quindi di migliorare è da sempre naturale impulso radicato e connaturato a ogni società e come tale questa esigenza non può essere definita che in un solo modo: un diritto.
Ormai l’atmosfera si era sciolta e s’era fatta confortevole. La neve che da un po’ si era imposta nel paesaggio contribuiva a rendere più famigliare il procedere. I finestrini erano appannati di condensa, la musica dell’autoradio in sottofondo era rilassante e qualche nuvola di fumo espirata dai nostri cocchieri rendeva acre l’aria. In quell’abitacolo, oltre al caldo riparo dal freddo esterno, stavamo imparando a condividere anche le nostre storie.
Tutti i passeggeri avevano figli e tornavano a casa una volta all’anno per rivederli. Maria, a un tratto, si rivolse a me dicendo: “È un po’ difficile non vedere crescere giorno per giorno i miei figli. Ma che posso fare? Però va bene anche così, almeno ho un lavoro e in Italia mi trovo bene. In Ucraina ci sono poche possibilità: mio marito è disoccupato da tanto tempo, come lo sono molti altri mariti. Così tocca a noi, mogli e donne. È un po’ difficile, ma va bene così”. Il tono di voce era calmo, tranquillo, per niente rassegnato. Era la solenne proclamazione di un dovere che stava assolvendo. Sapevo che lo stesso valeva per le altre due donne e per le migliaia sparse nei Paesi dell’Europa centro-occidentale dal momento in cui l’emigrazione dall’Ucraina è a forte maggioranza femminile. Rimasi ad ascoltarla profondamente ammirato.
Le soste continuavano a essere rade, eppure provvidenziali anche per sgranchire le gambe, fumare una sigaretta, vizio che avevo in comune con gli altri uomini della compagnia, e per accettare un piccolo sorso di horilka, la vodka ucraina offerta a ogni stop dai nostri rustici autisti. Le conversazioni a tratti languivano, si interrompevano e si imponevano lunghe pause di silenzio. Verso sera varcammo il confine ungherese.
Luda era di Chernivtsi, e pertanto ne approfittai per chiederle qualcosa della città. Mi parlò del suo grande mercato, della cattedrale e dell’enorme devozione di tutto il popolo ucraino verso la “Vera Fede”, ovvero la Chiesa cristiana ortodossia, e della prestigiosa università. Però aggiunse: “Appena arrivi devi assaggiare i nostri dolci. Ovunque in città, in ogni angolo della strada, troverai una babuska che li vende”.
“Una babuska?”
“Sì, una ‘nonna’. Le puoi incontrare dappertutto: in città vendono dolci, nelle campagne portano piccole fascine di legna, in montagna pascolano le oche. Tutti noi nutriamo un grande rispetto per loro. Sono state loro, soprattutto quelle più anziane, che hanno ricostruito il Paese dopo la Seconda guerra mondiale, dopo che la tragedia si era abbattuta sui nostri uomini e i nostri ragazzi in armi.”
Alle porte di Budapest il furgone posteggiò in una strada di periferia. Non capivo il perché di questa sosta. Scambiai occhiate interrogative con i miei compagni di viaggio, ma nessuno sembrava sapere perché i nostri autisti se ne fossero andati (dove?) lasciandoci lì parcheggiati per alcune ore. Ritornarono che era notte fonda. Ripartimmo come se nulla fosse accaduto. Io avrei voluto porre molte domande, ma gli altri passeggeri, sicuramente più avvezzi di me a quei viaggi, non mostravano alcun interesse per sapere dove fossero spariti per ore i due conducenti e io finii per non chiedere nulla. Prima di addormentarmi feci in tempo a godermi l’attraversamento del Danubio.
Ci risvegliammo intontiti e intorpiditi in prossimità del confine romeno. Non sapevo perché dall’Ungheria non fossimo passati direttamente in Ucraina, ma lo capii poco dopo. In una città romena ai piedi dei Carpazi, distante centinaia di chilometri dalla costa, che si chiama curiosamente Baia Mare tutto è possibile. Proprio lì ci dirigemmo. I conducenti, usi a battere queste vie, avevano evidentemente preso precedenti accordi con altri due passeggeri che in quella città salirono a bordo. Erano due donne che lavoravano da qualche mese in Romania e non parlavano una parola di italiano. Da quel momento nel nostro improbabile microcosmo, si istituì un curioso bilinguismo: si usava l’ucraino per comunicare con le nuove venute e l’italiano se ci si rivolgeva a me. Ecco in tutta la sua forza l’ambigua potenza della lingua: può imporsi come insormontabile barriera oppure, al contrario, può gettare preziosissimi ponti tra le diversità.
Baia Mare non dista molto dal confine ucraino e finalmente verso di esso puntammo. Ma poco prima della frontiera il furgone prese una prima e poi un’altra via secondaria fino a fermarci su di una strada sterrata in mezzo al nulla. Faceva freddo, la neve rendeva spietatamente uniforme il paesaggio punteggiato dai primi rilievi montuosi. Cosa stava succedendo? Forse un guasto? Ma perché infilarci in quella strada? Sentivo un autista parlare al cellulare, mentre gli altri passeggeri non sembravano minimamente preoccupati. Chiesi a Nazar, ma si mise a ridere. Provai con Halyna ma scrollò le spalle sorridendo, come a dire ‘Niente di importante’ oppure ‘Adesso vedrai’. Finalmente accadde qualcosa.
Una grossa macchina scura ci raggiunse. Tutto avvenne in maniera automatica, come se fosse una pratica collaudata da tempo: le due donne da poco salite a bordo salutarono e passarono nell’altra vettura.
“Ma come? Già se ne vanno?” Nessuno mi rispose.
A pochi chilometri affrontammo la frontiera che dopo estenuanti controlli si aprì facendoci finalmente entrare in Ucraina. Una certa elettricità s’impadronì di tutti quanti, mentre gli agenti stradali senza tanto nascondersi esigevano ripetute mance dai nostri autisti. Il furgone riprese il cammino, ma poco dopo imboccammo altre strade secondarie per fermarci ancora una volta ad aspettare in mezzo al nulla. Ormai avevo capito. Dopo un paio d’ore tornò quella macchina scura da cui scesero le due donne. Furono ricevute festosamente. Ora era chiaro: quell’auto aveva passato il confino in modo “informale” varcandolo chissà dove, eludendo i controlli ufficiali, facendo uscire dalla Romania quelle due passeggere evidentemente non in regola con i documenti.
Nevicava, le strade di montagna non garantivano nessuna sicurezza. Non s’incrociava niente e nessuno: non un altro mezzo, non un villaggio; si vedevano solo alcune croci ortodosse piantate sul ciglio della strada e qualche sparuta chiesetta di legno. Si procedeva a passo d’uomo, si vedeva solo neve e montagne. Era pomeriggio ma sembrava che fosse già l’imbrunire. Ci concedemmo un’ultima tappa e un’altra sigaretta. Uno degli autisti con uno zoppicante italiano mi chiese: “Sei sposato?”.
“No.”
“Sei fidanzato?”
“No, nemmeno.”
“Non sarai mica un russo?” facendomi capire che così definiva coloro i quali, secondo lui, non avevano corretti gusti sessuali.
“No, è solo che non sono fidanzato” risposi, ma ormai l’uomo non mi ascoltava più. Il volto era impassibile solo il tono di voce cambiò diventando più astioso.
“Russi… sono loro la causa dei nostri mali” sentenziò l’autista, salendo sul suo posto di guida.
Rimasi turbato, ma Maria, lì accanto, intervenne dicendomi che questo atteggiamento era normale e diffuso, che non era vero odio, erano solo parole, che i russi e gli ucraini avevano sempre convissuto e non potevano stare gli uni senza gli altri. “Non succederà mai niente di brutto fra Russia e Ucraina” concluse la donna.
Quelle parole erano sincere e cariche di speranza, ma ripensandoci oggi che la Crimea è tornata a essere russa, che l’Ucraina è dilaniata da una sanguinosa guerra civile, lasciano un particolare amaro in bocca.
Da lì a un paio d’ore arrivammo a Chernivtsi, giungendo a una piazzetta piena di minibus e furgoni. Dopo circa trentacinque ore di viaggio la compagnia in parte si sciolse: io e Luda eravamo giunti a destinazione, mentre gli altri proseguivano. Ci salutammo calorosamente. La distanza che all’inizio ci separava, chilometro dopo chilometro si era andata assottigliandosi. Proprio come il mio viaggio che, chilometro dopo chilometro, mi aveva avvicinato a una terra e a persone sconosciute.
Mauro Tunesi