Immaginate una ragazzina somala di 17 anni che vive nei sobborghi di Mogadiscio, in una baracca senza luce né acqua corrente, che cucina il cibo su un fuoco in cortile, che dorme con i suoi sei fratelli in un’unica stanza, su dei materassi buttati per terra. Nella sua vita non ha mai avuto una televisione, non è mai andata al cinema e non è mai salita su di un’auto.
Ora figuratevi questa ragazzina che nello spazio di poche ore si ritrova su un aereo, catapultata a Pechino, in mezzo a grattacieli abbaglianti e a un traffico febbrile, ospitata in un albergo di lusso, con la televisione satellitare, un bagno tutto per lei, l’acqua calda e un letto vero su cui dormire. Già questo basterebbe a mandare in confusione anche la persona più calma e riflessiva.
Adesso però fate un altro sforzo e immaginate la nostra protagonista con una tuta azzurra addosso, circondata dai più forti atleti del mondo;
immaginatela che cammina in un sottopassaggio buio per poi sbucare all’improvviso in uno stadio gremito da 91.000 spettatori, con le televisioni di tutto il mondo collegate, che trasmettono la sua immagine a 4 miliardi di persone. Beh, una situazione del genere è roba da far tremare le vene ai polsi a qualsiasi campione affermato, figurarsi alla nostra ragazzina somala.
Sembra una favola, eppure Samia, l’atleta bambina venuta dalla guerra, ha davvero partecipato alle Olimpiadi di Pechino 2008, correndo i duecento metri con le migliori velociste in circolazione. Samia non ha superato la prima batteria di qualificazione e ha fatto registrare il peggior tempo in assoluto, ma questo è un fatto secondario, perché per arrivare a quella gara Samia si era allenata oltre ogni limite, correndo di notte nello stadio deserto di Mogadiscio, oppure per le strade malconce con il burqa sulla testa, sfidando il coprifuoco, sfidando gli sguardi pieni d’odio dei miliziani di Al-Shabaab e rischiando le pallottole dei cecchini. Ha corso nel nome di suo padre, ucciso in un attentato, e nel nome del suo migliore amico, sparito tra le file degli integralisti.
Non deve essere stato facile vedere le proprie avversarie schizzare via ai blocchi e raggiungere il traguardo quando lei era ancora in curva, ma Samia era giovane, aveva il futuro dalla sua parte e la delusione delle Olimpiadi doveva passare in fretta; a quel punto c’era Londra 2012 a cui pensare,
c’erano quattro anni e mezzo per migliorarsi, per diventare la più veloce di tutte e vincere anche in nome delle donne. Già, perché dopo le Olimpiadi molte donne musulmane hanno cominciato a scriverle, dicendole che lei era diventata un simbolo per tante di loro che sognano un futuro di libertà.
Niente di più irritante per quelli di Al-Shabaab. E infatti allenarsi a Mogadiscio diventa praticamente impossibile per Samia, che accetta di trasferirsi in Etiopia e da lì iniziare l’assalto alle olimpiadi inglesi. Ad Addis Abeba, però, i documenti necessari per il permesso di soggiorno non arrivano mai, così la piccola guerriera, come la chiamava sempre suo padre, si ritrova di nuovo ad allenarsi e a vivere nella clandestinità.
A quel punto si gioca il tutto per tutto; tenta il Viaggio che prima di lei sua sorella ha compiuto insieme a tanti altri somali in fuga dalla guerra e dalla miseria. Inizia così un’odissea di nove mesi; viaggia in condizioni tremende, sbattuta da un posto all’altro dai trafficanti di esseri umani, costretta di volta in volta a racimolare nuovo denaro per proseguire fino alla tappa successiva. Ma Samia non molla mai.
E’ il 2012, Londra è sempre più vicina, e in Europa, magari in Finlandia, dove vive sua sorella, di sicuro sarà possibile avere tutto quello che serve per qualificarsi alle Olimpiadi. Alla fine di una terribile traversata del Mediterraneo, Samia arriva a sfiorare le coste di Lampedusa, è a pochi centimetri dal traguardo, ce l’ha quasi fatta.
La favola della piccola guerriera finisce qui.
Samia Youssef Omar muore annegata il 2 aprile 2012, cercando di afferrare le corde gettate dalla capitaneria di porto italiana, per aiutare i migranti di un barcone in difficoltà, al largo delle coste di Lampedusa.
Quello che ci rimane di Samia è la forza di volontà di una giovane somala con un sogno enorme, ci rimane il suo esempio e la nostra impotenza, la sensazione di un’ingiustizia troppo grande per essere accettata.
La storia di Samia è stata raccontata in un commovente libro di Giuseppe Catozella, intitolato “Non dirmi che hai paura”, edito da Feltrinelli.
[by: Moreno Castelli]