3 ottobre 2014: a un anno dal naufragio che ha visto morire 368 persone al largo di Lampedusa, Umberto e io andiamo sull’isola che ha deciso di non lasciar naufragare anche il ricordo di quella notte. Ancora una volta Lampedusa accoglie gli “stranieri” – sopravvissuti, famigliari e persone che arrivano da ogni parte del mondo – per riflettere e discutere attorno a quello che è successo. Sono giornate molto intense, fatte di accese discussioni pro e contro le politiche di accoglienza, dei visi dei sopravvissuti e dei loro racconti, di immagini del naufragio del 3 ottobre (e non solo di quello) nelle foto scattate da chi ha fatto la cronaca di quei giorni. Tornando a casa, nella nostra valigia mettiamo molte emozioni positive, la sensazione di una grande energia che sicuramente produrrà qualcosa, magari a lungo termine, ma che non rimarrà certo priva di conseguenze.
I fatti più recenti, quegli 800 e passa morti nelle acque attorno all’isola, sono come altrettanti colpi che si abbattono violenti contro questa convinzione, ma che non riescono a demolirla. Paradossalmente la rafforzano, gridando l’urgenza e l’ineluttabilità di trovare una strada alternativa alle leggi attuali, irrazionali e miopi. E inumane. Quello che segue è un brevissimo racconto di quanto abbiamo visto, delle emozioni che abbiamo vissuto e delle riflessioni che questa esperienza ha provocato in noi.
I migranti scappano nonostante tutto!
Nonostante il dolore di lasciare la propria terra e, spesso, la propria famiglia senza alcuna certezza di rivederla un giorno. Nonostante le violenze che sono costretti a subire durante il lungo percorso, tutti, ma le donne in special modo, doppiamente indifese e doppiamente offese rispetto agli uomini. Scappano nonostante le umiliazioni che sono obbligati a patire, inflitte da persone che si stenta a chiamare tali e che per il proprio guadagno personale non sono più capaci di vedere uomini davanti a sé, ma soltanto mercanzia, un tanto al chilo; e scappano nonostante l’orrore di scoprire che la propria vita vale solo in funzione di quanto può fruttare ai mercanti di uomini, per i quali la loro vita ha pure una data di scadenza, perché dopo avergli portato via tutto, possono anche crepare in mare, che tanto non servono più a nulla.
Scappano nonostante tutto. Consapevoli di quanto li aspetta, forse non dell’entità della sofferenza, ma coscienti che il viaggio sarà terrificante.
Allora viene da chiedersi quanto tremendo sia il posto da cui fuggono e quanta forza abbiano queste donne e uomini – ma sempre più solo ragazze, ragazzi e bambini – per mettersi in un simile viaggio. E quanta tenacia e quanta speranza c’è in ogni singolo cuore che sale su quelle zattere.
Ne abbiamo incrociati molti, di ragazzi, che in un modo o nell’altro hanno avuto a che fare con il naufragio del 3 ottobre. Tutti eritrei molto giovani.
La prima cosa che abbiamo notato in loro è stato l’atteggiamento: nonostante la tremenda esperienza vissuta, sembravano sentirsi a casa a Lampedusa Sono a proprio agio, come se nulla fosse accaduto solo un anno fa. Sembrano ragazzi “normali”, i vicini delle porta accanto. Osservandoli non traspare nulla delle mostruosità vissute. Questo loro essere lì, semplicemente, ci è parso tranquillizzante. Vederli passeggiare nelle serate tiepide, lungo il corso di un paese di mare, chiacchierando con gli amici italiani, ci ha colpito in modo particolare: ci hanno mostrato un coraggio tutto speciale, quello di chi non si arrende alle brutture che per tanto tempo li hanno circondati, capaci loro per primi di vedere il lato buono, positivo nell’altro.
Ripensando a quei giorni ci viene in mente anche un’altra parola: dignità. È questo che hanno mostrato i superstiti durante la preghiera comune, alcuni stretti in un abbraccio, commossi al ricordo del naufragio e delle persone che non ci sono più; oppure nei locali della parrocchia, dove li abbiamo incrociati davanti a una piccola quanto impressionante e toccante mostra fotografica sui salvataggi: un’emozione composta davanti alle immagini della loro storia personale, tanto più sorprendente se messa a confronto con la loro giovane età. Un atteggiamento sconosciuto ad altre persone che abbiamo incontrato: uno tra tutti, all’uomo che, in uno dei momenti di commemorazione, ha rovesciato addosso a una ragazza eritrea il suo disprezzo con parole violente e offensive; non le abbiamo sentite, ma le abbiamo “viste” nelle lacrime, silenziose e composte anche quelle, sul viso della ragazza.
“Ma cosa te ne importa”, ci veniva di dirle, “tu sei più forte di qualche stupido razzista. Tu sei sopravvissuta e sei rimasta umana, tu hai sopportato cose nella tua giovane vita che quest’uomo non può nemmeno immaginare. Lui si sente superiore, ma tu lo sei”.
Lui è tutto rancore e astio. Tu sei ancora capace – ti abbiamo visto – di innamorarti, nelle serate tiepide, lungo il corso di un paese di mare.
[by Laura Barcellona e Umberto Contro]