Mi vien da ridere. La mamma di Chang mi ha ascoltato diligentemente. Le ho fatto uno stupendo discorso da libro Cuore, molto chiaro e sentito. E mò? Mò si rivolge a lui, con aria severa, rimproverandolo con tono gentile, ma fermo, però… in CINESE e l’unica parola che capisco è “maestra”!!! Epporcalamiseria… 🙂 Non rido perché lo rimprovera. Rido perché le ho appena detto che doveva continuare a parlare con lui in italiano, soprattutto nei momenti difficili, di scontro, se possibile; rido perché le ho fatto i complimenti per incentivarla. Rido perché ho cercato le parole giuste e meno complicate per farle arrivare il messaggio di “sii la nave che traghetta tuo figlio attraverso le perigliose acque della lingua italiana e fallo con gioia, tra un involtino primavera e ‘na pizza quattro stagioni”. Rido perché lei lo parla molto bene l’italiano ed è una cosa bellissima che dia l’esempio al figlio, che è molto timido e poco sicuro. Marò, ma come devo fare? 🙂 È importante che gli faccia vedere che è possibile parlare italiano bene, anche se sei un adolescente cinese e tutto sembra davvero un ostacolo insormontabile; soprattutto se lo aggiungi agli squilibri ormonali, alla timidezza insita nel carattere, a tutti quei problemi che ti porta il primo filo di barba che aspetti con ansia e pure quella ragazzina italiana, tanto carina, che pure lei vorresti aspettare con ansia, magari davanti alla scuola, ma manco ti si fila di striscio. E vabbè, chettelodicoaffà… 🙂 io, prima di tutti, son brava a predicare e poi, purtroppo, da buona gallina campana, razzolo male, giusto quel poco che la differenza la fa. Pazienza. Allora, la interrompo con gentilezza e allegria e le ricordo che lo deve fare in italiano. E lei si blocca e non trova le parole. E ridiamo tutti. Massì, chissenefrega, ridiamo. Ma ridiamo in italiano, se si può. Insomma, deve essere una cosa che viene da casa e dev’essere ‘na cosa gentile, se si può. E non è facile farla arrivare ai genitori. Si vergognano, anche loro; non sono sicuri e, a volte, non capiscono nemmeno quello che dici tu, figurati a convogliarlo in italiano ai figli. E allora non fa niente. Io continuo a provarci. Non dobbiamo arrenderci, mai. Altrimenti è finita e l’entusiasmo e la gioia, pure. Siate entusiasti. Siate gioiosi. Siate le scialuppe di salvataggio di quelle navi di cui parlavo prima. Siate la speranza e parte delle piccole certezze di tutti i giorni di questi ragazzi. Ma quanto è difficile, vero? Vabbè, saluto tutti, entro in auto, avvio il motore e inizio a ricordare.
Quando emigrammo in Liguria, da Napoli, stabilendoci nella solare e raggiante Arma di Taggia, noi eravamo i terroni. L’ho sempre detto e non me ne vergogno: non parlavo italiano. Parlavo napoletano. Anche a scuola si parlava napoletano a Napoli. Non mi chiedere come ci insegnava la maestra Naclerio; non ricordo. O, forse, non voglio ricordare perché, certe volte, pure a me mi faceva inginocchiare sui chicchi di grano, per punizione, con le mani dietro la testa, nell’angolo dietro la lavagna. Così si faceva, 50 anni fa, a Napoli. La differenza fu tanta, arrivata in Liguria. Il maestro, Vittorio Colombo, era Corrado Mantoni de’ noartri. Un vocione bellissimo, capelli brizzolati, gentilezza infinita, comprensione ed empatia senza fine. Mi proteggeva da tutti. Per lui ero preziosa, a sapere perché… Arrivai da lui, in quarta, che ancora parlavo napoletano e basta. Mi insegnò tutto, daccapo, con la pazienza e l’amore che solo un maestro illuminato può possedere. Mi innamorai di lui, del suo sorriso, della sua disponibilità, del suo desiderio di far vedere agli altri che ce la potevo fare. Per ricambiarlo, diventai la più brava in italiano. Scrivevo, scrivevo, scrivevo…
Riuscii perfino a scrivere una lettera bellissima a mamma per la sua festa che lei conservò con amore e che poi mi ha dato, qualche anno fa. Caro maestro Colombo…
Da qualche parte, sulla terra, ci dev’essere sicuramente qualcosa che vive grazie al residuo concimante di un foglio a quadretti con sopra scritto decine di volte il suo nome, tra una cornicetta e l’altra. 🙂 Alla fine mi chiedo, cosa mi motivò? Cosa mi rese così agguerrita e decisa nel successo? La fiducia. Lui mi diede fiducia e io mi sentii degna e meritevole. Perciò? Perciò niente. Sono andata a leggere su internet da dove deriva la parola maestro. Dice che viene da “maestrìa”, che fu coniata nel 13° secolo. Maestrìa, uhm… Noi pratichiamo la maestrìa, te ne rendi conto? Noi siamo bravi a fare una cosa che è la maestrìa. Mò, non so se sia vero ma, sicuramente so che ci proviamo, con tutto il nostro cuore e la nostra anima, a maestrare… 🙂 e di meglio non potremmo mai fare, credimi.
Epilogo: Chang è uscito dal guscio a fine anno e soprattutto in presenza del folto gruppo di arabi che gli incuteva un benevolo timore e non perché fossero cattivi, ma perché essere l’unico cinese in mezzo a una mandria di simpatiche canaglie egiziane non è mica facile, sai? E sai quando ci è riuscito? Quando ho incominciato a far vedere agli altri quanto figo lui fosse, quando ho “gentilmente, innocuamente, casualmente, occasionalmente” fatto osservare ai manzi di cui sopra quanto DAVVERO lui sapesse e quanto utile poteva essere avere lui nella squadra delle ricerche di parole e coniugazione dei verbi, quando facevamo i giochi di parole. Certo, non è stato facile, ma ce l’abbiamo fatta e spero davvero che, magari, ora Chang stia aspettando davanti alla scuola quella ragazzina che, magari, gli ha passato un biglietto con tanti cuoricini oppure gli ha mandato un messaggio su Wapp e spero che lui l’abbia capito tutto, parola dopo parola… fosse mai che la sta aspettando dal lato sbagliato della scuola… 🙂
Rosa Parrella