Che cosa significa insegnare italiano a chi non lo sa?
Una serie di racconti dei nostri volontari prova a spiegarlo.
Ecco a voi quello di Fabio Capoccetti. Buona lettura!
Appena faccio il suo nome lei ha un sussulto.
Succede puntualmente, è stato così fin dall’inizio dell’anno scolastico, eppure ogni volta non riesco a trattenere un sorriso, né ho ancora capito se questa reazione le arrivi perché si emoziona che qualcuno dedichi un’attenzione proprio a lei (chissà quanto si sente speciale in quel momento) o per essere stata colta ancora una volta in un momento di distrazione, lei che non è mai andata a scuola, e stare concentrata su un libro per più di cinque minuti le costa una fatica indicibile.
Le annuncio: “Zige, questa è per te!”.
Il suo nome in realtà è molto più lungo, almeno una decina di lettere, ma deve aver rinunciato da tempo a farlo imparare a noi italiani, che ci chiamiamo Ivo Ada Leo… Più facile accorciare a Zige e non pensarci più.
“Per me?!” si accerta.
Quasi non le sembra vero che sia proprio lei la prescelta. Guarda la carta che le porgo, esita, la tocca con grande cautela, quasi fosse un oggetto raro; allunga le sue mani olivastre, con quelle dita affusolate, segnate dal lavoro eppure ancora delicate – un anello di pietra e metallo ad impreziosire l’anulare destro, una vecchia fede nel sinistro – incerte nel prendere la carta, poi più decise. La accarezza ripetutamente con i polpastrelli di entrambe le mani, accostate l’una all’altra, le dita serrate.
“Sì”, la rassicuro, “prova a leggerla”.
Allora la attira a sé, tronfia del suo involontario bottino. I suoi occhi brillano per quello che le deve sembrare un gioco intrigante, una sfida emozionante. La carta giace ora sotto il suo sguardo miope e curioso: non la solleva per vederla meglio, forse per paura di rovinarla, soprattutto adesso, dopo averla lisciata ben benino con le sue dita. Strizza invece gli occhi, arretra il capo, mette a fuoco.
“Va bini” dice, e sembra persuasa.
Si esprime in quell’italiano in cui ancora certe vocali bisticciano tra di loro, perché nella sua, di lingua, una di quelle vocali non ha cittadinanza ed ora suona strana e straniera, misteriosa e incomprensibile. Zige è in Italia da trent’anni, da quando lasciò la sua terra, sconvolta dalla guerra. In questo periodo ha imparato la nostra lingua ascoltandola per strada, nei mercati, nelle case che aiuta a tenere in ordine, nelle occasioni in cui incontra altri stranieri come lei, portatori sani di un italiano più o meno infermo.
“Miii…laaa…noo…” legge con cautela.
Una fatica enorme per mettere insieme quelle tre sillabe, e risolvere così quel complicato enigma! A dispetto del suo italiano parlato, impreciso eppure comprensibile, Zige non sa leggere né scrivere, né nella nostra né nella sua lingua: nel suo paese, l’Eritrea, non è andata a scuola. Qui in Italia si è dovuta preoccupare fin da subito di bisogni primari (una casa, un lavoro) ma oggi la sua esistenza è più stabile, e c’è spazio per soddisfare il desiderio di comprendere le insegne per strada o di appuntarsi la lista della spesa. È così che Zige ci ha chiesto di insegnarle a leggere e scrivere. È così che è nato il corso che lei frequenta.
“Milano!” suggella trionfante.
Possibile che fosse tanto semplice? “Milano?” mi chiede perplessa senza alzare lo sguardo dalla carta. Non è mica convinta! Eppure, mesi e mesi di esercizio stanno finalmente dando i loro frutti: lezioni intere passate a riempire un foglio bianco con le lettere dell’alfabeto, dapprima incerte, poi sempre più precise e spedite, sillabe da indovinare tra tessere colorate, giochi con i nomi di oggetti quotidiani, che magicamente assumono un valore ed un fascino nuovo, per il solo fatto di scoprire come si compone la parola che li rappresenta. Che poi, chissà se Zige ha davvero capito che quello scarabocchio sulla carta altro non è che il nome della città dove vive.
“Che bella Milano!” e sorride con tenerezza, neanche stesse parlando della sua nipotina.
Mi compiaccio io stesso del suo compiacimento, anche se, lo confesso, non capisco se si riferisca alla parola che le è toccata in sorte – una delle più facili che le potesse capitare – oppure alla città che trent’anni fa è diventata la sua nuova casa. È questa la sfida più grande mia e dei colleghi con cui mi sono buttato in questa avventura del corso di lettura e scrittura: non tanto portare gli studenti a leggere e scrivere parole e frasi, quanto invece farli rendere conto che quegli stessi gruppi di lettere e parole, solo apparentemente incontratisi sul foglio per caso, sono in realtà un patrimonio inestimabile, il lasciapassare per una vita dove diventa più facile orientarsi per strada, fare la spesa al supermercato, compilare un vaglia postale o un biglietto d’auguri. O, più banalmente, scoprire con infinita meraviglia come si scrive e si legge il proprio nome o quello della propria città.